Tra le tante produzioni che nel corso degli anni il mondo del jazz ha dedicato a Nino Rota, questa ha la qualità di entrare in punta di piedi in quel peculiare universo espressivo profumato di musica da strada, di echi del circo, ma al tempo stesso pensato da un musicista colto e padrone delle più raffinate tecniche di scrittura. Forte come idea quanto fragile sul piano poetico, la musica di Nino Rota, che tanto ha contribuito al successo, anzi: alla caratterizzazione di film entrati nella storia del cinema (e non solo di Fellini), ha la delicatezza di un vetro di Murano.
Basta un nulla e va in mille pezzi, perde la sua identità, il senso che la anima; sopratuttto, la magniloquenza di sonorità eccessivamente ricercate, un rapporto di tipo intellettuale con le pagine originali, l’apertura a processi improvvisativi troppo ampi mandano in frantumi l’armonia di unpensiero immediatamente riconoscibile, ma fatto di piccole cose. Proprio ad esse hanno guardato i due protagonisti di questo album, entrati in punta di piedi nel sancta sanctorum di Rota, ma al tempos tesso capaci di rendersi riconoscibili, di manterere la propria identità musicale.
Il loro è un dialogo a mezza voce, che sfrutta le qualità di due strumenti ideali per affrontare repertori di questo tipo. La tromba evoca immediatamente gli aspetti popolari, la fanfara, le suggestioni della musica all’aperto; il contrabbasso disegna le trame in maniera sottile, mai invadente, tenendo le fila del discorso, ponendosi come struttura portante della musica. Niente frastuono, nessun grido, improvvisazioni che rispettano il climax delle melodie senza soffocare la fantasia sono alla base del rigore poetico di questo progetto, ideato inizialmente da un contrabbassista esperto e sensibile come Marco Gamba e subito sposato da Sergio Orlandi, trombettista che già in altre occasioni ha dimostrato di saper entrare nel mondo espressivo di altri musicisti trasformando con rispetto, evitando di snaturarlo pur senza annullare la propria personalità artistica.
Maurizio Franco